Viene naturale chiedersi quale sia l’algoritmo strategico nonché politico che governa le decisioni degli uomini della Casa Bianca in politica estera. Da guardiani della democrazia del mondo e tutori degli interessi nazionali hanno deciso anche in nome e per conto nostro e, talvolta, dell’Onu, di bombardare paesi e dichiarare guerra a dittatori nemici della libertà. Così è successo per la Serbia di Slobodan Milosevic, l’Afghanistan dei Taliban, l’Iraq di Saddam Hussein e, ancora prima, alla Cuba di Fidel Castro e alla Panama di Manuel Noriega. Se teniamo buona questa ragione e giustifichiamo il ruolo militare degli Usa quale “gendarme della democrazia” nel mondo, non riusciamo a capire come lo stesso algoritmo (ammesso che esista nella mente di Bush e dei suoi strateghi) possa funzionare per il “presidente” pakistano Pervez Musharraf. Dopo aver riammesso in patria, mettendo fine ad un esilio di otto anni, Benazir Bhutto, l’uomo forte del regime militare di Karachi ha ordinato gli arresti domiciliari dell’ex premier, rea di averlo contestato, chiedendone le dimissioni e lanciando un appello alla comunità internazionale perché lo isoli. Il generale Musharraf ha proclamato il 3 novembre scorso lo stato d’emergenza, la sospensione della Costituzione e, prima, la destituzione del presidente Corte Suprema Iftikhar Muhammad Chaudrhry, uno dei suoi più fieri avversari e chiamato di lì a poche ore a pronunciarsi sulla legittimità della sua elezione. In difficoltà, Musharraf ha annunciato due giorni fa che le elezioni parlamentari si terranno il 9 gennaio, nonostante lo stato d’emergenza ancora in vigore. Oggi la Bhutto vive reclusa nella sua casa di Latore, circondata da 1100 soldati e poliziotti che impediscono ogni contatto verso l’esterno. La stessa Bhutto, che il 18 ottobre a Karachi ha subito un attentato appena ha messo piede in patria e costato la vita a 139 persone, lavora alla nascita di una grande coalizione di opposizione che raccolga tutti gli avversari dell’attuale regime. Due dei maggiori partiti d’opposizione pachistani, la Lega islamica pachistana (dell’ex premier Nawaz Sharif) e la più popolare organizzazione islamica Jamaat-e-Islami, hanno annunciato che probabilmente boicotteranno le elezioni se non sarà revocata la “mini legge marziale”. La Bhutto ha escluso negoziati con Musharraf, minacciando a sua volta di non partecipare alle elezioni. L’ex premier ha proposto un’alleanza con Sharif, ancora in esilio in Arabia saudita. E a Riad, riferiscono fonti pachistane, dovrebbe recarsi Musharraf su richiesta del sovrano saudita Abdadallah, che fra le altre cose vuole parlare dell’arresto dell’ “amico” Hamid Gul, l’ex capo dei servizi segreti pakistani Isi e architetto dell’avvento dei Taliban in Afghanistan negli anni Novanta, sovvenzionato proprio da denaro saudita. In Pakistan, nelle zone di confine verso l’Afghanistan, sotto il controllo delle tribù locali, si nascondono con tutta probabilità Bin Laden e lo stato maggiore di al Qaeda, in fuga dall’Afghanistan e tollerati (se non protetti) da una parte dei servizi segreti pakistani. Gli Stati Uniti hanno annunciato l’invio nel Paese asiatico del falco John Negroponte, numero due del dipartimento di Stato, incaricato di intensificare le pressioni su Musharraf affinché “revochi” le misure liberticide: il ripristino della democrazia nel paese non è all’ordine del giorno dell’agenda americana. E a questo punto non può che tornare ancora alla mente l’irrisolto algoritmo della democrazia a Stelle e Strisce, che condanna Saddam e sostiene Musharraf…
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