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Gaza, la strage degli innocenti

Bambini uccisi a Gaza

Bambini uccisi a Gaza

La tregua è servita a pianificare la vendetta reciproca. Non per costruire la pace. Hamas per rafforzarsi sul terreno della disperazione, Israele per individuare gli obiettivi nemici da annientare con le bombe. Le cronache di guerra che arrivano da Gaza rendono la verità evidente. E ancor più dolorosa.

In mezzo c’è la gente e i bambini, impazzati nel doloroso orrore della guerra: 500 morti in pochi giorni.

Manca un quarto soggetto: la diplomazia, assente quanto colpevole. Inutile, quanto costosa ed indifendibile con i suoi termini vuoti e inconcludente. Da mesi Hamas ed Israele preparavano lo scontro ma nessuno è intervenuto per scongiurare la catastrofe. E nessuno interviene ora per fermare la carneficina di civili palestinesi. Davide contro Golia. A parti inverse.

Da una parte i “terroristi” di Hamas, ma che a Gaza godono dell’appoggio della gente, stanca di decenni di potere corrotto dell’Anp; dall’altra la superpotenza israeliana, che in risposta ai razzi lanciati su Sderot risponde con i bombardamenti e l’invasione. Chi sono i più criminali: i miliziani di Hamas che si annidano tra i civili o coloro che colpiscono decine di bambini e civili inert pur di uccidere il menico? Non ho dubbi. Criminali sono entrambi.

Poveri bimbi di Gaza.

Il terrore di un bambino a Gaza

Il terrore di un bambino a Gaza

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Il principino Harry torna dalla guerra

Il principe Harry in azione sul campo Per il principe Harry la guerra in Afghanistan è finita: il ministero britannico della Difesa ne ha deciso il richiamo dopo che ieri è diventata improvvisamente di dominio pubblico la sua presenza tra le truppe di Sua Maestà impegnate a combattere i Taleban nella provincia di Helmand. La decisione – annunciata ufficialmente sulla scia di indiscrezioni del tabloid Sun – è stata presa nella convinzione che le rivelazioni dei mass-media hanno reso insostenibile la permanenza del secondogenito di Carlo e Diana nell’insidioso scacchiere afghano, dove si trova dal 14 dicembre: sarebbe troppo rischioso non soltanto per lui ma anche per i suoi commilitoni.

Ma allora la guerra è pericolosa, non solo per la truppa. Fatico a credere che il rampollo reale sia stato davvero in prima linea. Forse mi sbaglio o forse no. ∞

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Dakar annullata, vince la paura

Parigi Dakar La Parigi – Dakar è stata annullata. Da tempo le autorità avevano ricevuto segnalazioni su possibili attentati lungo il percorso e così gli organizzatori hanno preferito (giustamente) non rischiare. Dopo i viaggi e l’incontro con altre culture, ora le tensioni internazionali entrano pesantemente anche nello sport. Si può essere più o meno d’accordo con lo spirito della Dakar – chi scrive lo è solo in parte – ma nessuno può negare che lo scontro tra civiltà e religioni ha reso meno bello e vivibile questo nostro mondo. E le responsabilità non sono solo di qualche fanatico. Anzi. ∞

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Lo strappo del Kosovo

 Le truppe Nato in KosovoIl Kosovo proclamerà in maniera unilaterale la propria indipendenza dalla Serbia prima di maggio. L’annuncio, previsto, è arrivato  da Pristina, dove le autorità kosovaro-albanesi avvieranno immediatamente trattative con i loro sostenitori occidentali per arrivare alla dichiarazione di indipendenza dalla Serbia. E il processo sarà completato in tempi molto rapidi, “parecchio prima di maggio”. La mossa di Pristina, prevedibile dopo il fallimento della mediazione, è stata annunciata da Skender Hyseni, portavoce della delegazione che ha condotto i negoziati con Belgrado.

Quasi contemporaneamente da Mosca è arrivato un nuovo durissimo monito: “Se i nostri partner (Europa e Stati Uniti, ndr.) riconosceranno una proclamazione unilaterale d’indipendenza da parte del Kosovo, noi invece non lo faremo – ha minacciato  il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov – Chi appoggia l’indipendenza del Kosovo pensi con estrema attenzione alle conseguenze perché in tal caso quegli stessi Paesi violerebbero il diritto internazionale e  provocherebbe una reazione a catena, nei Balcani e in altre parti del mondo”.

La diplomazia internazionale, a quasi 10 anni dai massacri compiuti dalle milizie paramilitari serbe sulla popolazione di etnia albanese, non è riuscita a segnare una strada di pace in Kosovo. Gli albanesi, maggioranza al 90% in Kosovo, hanno deciso che è l’ora di agire e con il (probabile) assenso dei paesi occidentali hanno fissato anche le date del cammino. Non sarà facile, ma sicuramente hanno un futuro ancora più difficile le migliaia di serbi che da anni hanno deciso di vivere dentro le prigioni all’aria aperta che sono le enclave: stranieri in patria sia che scelgano di restare in Kosovo, sia che scelgano di riparare in Serbia. ∞

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Kosovo, negoziati falliti

Cittadiini kosovari di etnia sebra nell’enclave di Gorazdevac, nei pressi di Peja-Pec Il negoziato di New York sul Kosovo è fallito: serbi ed albanesi non hanno trovato un accordo sul futuro (indipendente) del regione balcanica. A nulla sono valsi i tentativi della troika Stati Uniti – Unione Europea – Russia di trovare una mediazione tra l’avversione di Belgrado a riconoscere la sovranità dell’ex regione della grande Jugoslavia e la determinatezza con cui Pristina vuole arrivare ad una dichiarazione di indipendenza unilaterale.

In pochi hanno creduto veramente che il vertice di New York avrebbe portato ad una soluzione della crisi: gli stessi attori non sono stati capaci dal 1999 ad oggi di costruire un futuro del Kosovo, spedendo migliaia di militari della KFor per impedire ulteriori massacri tra serbi ed albanesi, e spendendo miliardi di euro per alimentare artificialmente quello che di fatto è da tempo, ovvero uno stato senza economia e guida politica.

New York si è quindi celebrato il fallimento della diplomazia internazionale, incapace di arrivare a quella che appare essere l’unica (e più difficile) soluzione: riconoscere al Kosovo l’indipendenza, esigere il rispetto da parte albanese dei diritti della minoranza serba, contrastare corruzione e criminalità, ed avviare un serio programma di integrazione etnica. Nulla di tutto questo è stato fatto dalla troika in questi anni che si è limitata invece a gestire l’ordinario.

Ed ora?  Il Kosovo dichiarerà unilateralmente la propria indipendenza. Questo ha promesso e questo vuole il nuovo uomo forte di Pristina, Hashim Thaci, leader del Partito democratico (Pdk) ed ex comandante militare della guerriglia separatista albanese (Uck), che nelle scorse settimane ha vinto le elezioni politiche. L’indipendenza del Kosovo è sostenuta più o meno esplicitamente da gran parte dell’Occidente ed è avversata da Mosca, alleato storico di Belgrado, che nella seconda metà degli anni ’90 mise a ferro e fuoco il Kosovo, pur di sottometterlo. La Russia, in realtà, è anche preoccupata del progressivo avvicinamento di Belgrado agli Stati Uniti che hanno individuato proprio nella Serbia il partner economico dell’area. A sua volta, la nuova Serbia, quella succeduta a Slobodan Milošević, sta guardando più od Ovest (Europa e Stati Uniti) che a Sud (Kosovo) o Est (Russia), decisa superare la crisi economica determinata da una campagna militare durata quasi 10 anni. La tentazione di Belgrado di liberarsi del fardello Kosovo è forte, ma ad impedirlo c’è l’opinione pubblica molto nazionalista e la posizione della chiesa ortodossa (i kosovari sono mussulmani…) alle quali si rivolgono i “fratelli” delle enclave serbo-kosovare che temono di essere abbandonati al proprio destino. E proprio pochi giorni fa, i rappresentanti della minoranza serba in Kosovo hanno consegnato al primo ministro di Belgrado, Vojislav Kustunica, una petizione firmata da 75 mila persone, in cui si ribadisce l’intenzione di non riconoscere un’eventuale dichiarazione di indipendenza unilaterale da parte di Pristina.

La situazione rischia quindi di degenerare a breve in nuovi scontri e violenze. I ministri degli esteri di Italia, Gran Bretagna, Francia e Germania – i paesi con la maggior presenza militare in Kosovo – hanno scritto ai loro colleghi europei per dire che, esaurito lo spazio negoziale, per l’Ue è arrivato il momento di assumere un orientamento chiaro sui suoi impegni.

Un orientamento che dovrebbe sfociare quanto prima – come ha sottolineato il ministro degli esteri Massimo D’Alema – al via libera ad una missione civile dell’Unione Europea destinata ad assumere il controllo dell’amministrazione del Kosovo. In tal modo, congiuntamente alla presenza sul territorio di circa 17.000 uomini della forza Kfor della Nato, si potrebbe assicurare quel presidio del territorio necessario a impedire il  riesplodere della violenza. E a congelare nuovamente politicamente e militarmente il paese. Il tutto a beneficio di estremisti, puttanieri, trafficanti di droga e armi, politici corrotti e faccendieri. ∞

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La pace “annunciata” porta male

Bush vede sempre molto lontano…Da Annapolis, George W. Bush annuncia entro il 2008 la pace tra israeliani e palestinesi. E io mi sento male. Questo non ne ha azzeccata una in tema di pace… ∞

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Contro le mine antiuomo

Un bambino vittima di una mina antiuomo In Giordania si riunisce oggi (domenica) l’assemblea degli Stati che hanno sottoscritto la convenzione «sul divieto di impiego, stoccaggio, produzione e trasferimento delle mine antiuomo e della loro distruzione». Ufficialmente, l’Italia non costruisce mine antiuomo, ma continua ad essere uno dei maggiori produttori al mondo di componenti per le stesse: queste non uccidono ma mutilano. Sono decine i paesi ancora infestati dalle mine antiuomo disseminate durante precendenti guerre. A pagarne il prezzo più alto è la popolazione civile, bambini in particolare. Come è possibile definire coloro che fabbricano mine o loro componenti: imprenditori o criminali? ∞

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Il Pakistan e l’algoritmo democratico degli Stati Uniti

Vertice tra Musharraf e Bush  Viene naturale chiedersi quale sia l’algoritmo strategico nonché politico che governa le decisioni degli uomini della Casa Bianca in politica estera. Da guardiani della democrazia del mondo e tutori degli interessi nazionali hanno deciso anche in nome e per conto nostro e, talvolta, dell’Onu, di bombardare paesi e dichiarare guerra a dittatori nemici della libertà. Così è successo per la Serbia di Slobodan Milosevic, l’Afghanistan dei Taliban, l’Iraq di Saddam Hussein e, ancora prima, alla Cuba di Fidel Castro e alla Panama di Manuel Noriega. Se teniamo buona questa ragione e giustifichiamo il ruolo militare degli Usa quale “gendarme della democrazia” nel mondo, non riusciamo a capire come lo stesso algoritmo (ammesso che esista nella mente di Bush e dei suoi strateghi) possa funzionare per il “presidente” pakistano Pervez Musharraf. Dopo aver riammesso in patria, mettendo fine ad un esilio di otto anni, Benazir Bhutto, l’uomo forte del regime militare di Karachi ha ordinato gli arresti domiciliari dell’ex premier, rea di averlo contestato, chiedendone le dimissioni e lanciando un appello alla comunità internazionale perché lo isoli. Il generale Musharraf ha proclamato il 3 novembre scorso lo stato d’emergenza, la sospensione della Costituzione e, prima, la destituzione del presidente Corte Suprema Iftikhar Muhammad Chaudrhry, uno dei suoi più fieri avversari e chiamato di lì a poche ore a pronunciarsi sulla legittimità della sua elezione. In difficoltà, Musharraf ha annunciato due giorni fa che le elezioni parlamentari si terranno il 9 gennaio, nonostante lo stato d’emergenza ancora in vigore. Oggi la Bhutto vive reclusa nella sua casa di Latore, circondata da 1100 soldati e poliziotti che impediscono ogni contatto verso l’esterno. La stessa Bhutto, che il 18 ottobre a Karachi ha subito un attentato appena ha messo piede in patria e costato la vita a 139 persone, lavora alla nascita di una grande coalizione di opposizione che raccolga tutti gli avversari dell’attuale regime. Due dei maggiori partiti d’opposizione pachistani, la Lega islamica pachistana (dell’ex premier Nawaz Sharif) e la più popolare organizzazione islamica Jamaat-e-Islami, hanno annunciato che probabilmente boicotteranno le elezioni se non sarà revocata la “mini legge marziale”. La Bhutto ha escluso negoziati con Musharraf, minacciando a sua volta di non partecipare alle elezioni. L’ex premier ha proposto un’alleanza con Sharif, ancora in esilio in Arabia saudita. E a Riad, riferiscono fonti pachistane, dovrebbe recarsi Musharraf su richiesta del sovrano saudita Abdadallah, che fra le altre cose vuole parlare dell’arresto dell’ “amico” Hamid Gul, l’ex capo dei servizi segreti pakistani Isi e architetto dell’avvento dei Taliban in Afghanistan negli anni Novanta, sovvenzionato proprio da denaro saudita. In Pakistan, nelle zone di confine verso l’Afghanistan, sotto il controllo delle tribù locali, si nascondono con tutta probabilità Bin Laden e lo stato maggiore di al Qaeda, in fuga dall’Afghanistan e tollerati (se non protetti) da una parte dei servizi segreti pakistani. Gli Stati Uniti hanno annunciato l’invio nel Paese asiatico del falco John Negroponte, numero due del dipartimento di Stato, incaricato di intensificare le pressioni su Musharraf affinché “revochi” le misure liberticide: il ripristino della democrazia nel paese non è all’ordine del giorno dell’agenda americana. E a questo punto non può che tornare ancora alla mente l’irrisolto algoritmo della democrazia a Stelle e Strisce, che condanna Saddam e sostiene Musharraf…

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Myanmar, i monaci tornano in piazza

Torna la protesta in Myanmar La voglia di libertà non si spegne in Myanmar. Nell’ex Birmania, i monaci buddisti sono tornati in piazza per la prima volta dalle proteste di agosto e dalla repressione del regime militare. Secondo le agenzie di stampa e la Bbc, che stamattina hanno lanciato le prime notizie, qualche centinaio di bonzi in saio rosso hanno marciato nel centro di Pakkoku, città nel centro del Paese, pregando e cantando. “Ci sono circa 200 monaci che stamani hanno marciato pregando. Hanno percorso la Pauk Road”, ha raccontato un testimone alla Reuters. I monaci hanno marciato per poco meno di un’ora, recitando preghiere e canti, senza scandire slogan ostili al regime. Conclusa la manifestazione, senza incidenti, i religiosi sono ritornati ai loro monasteri. Ancora oggi sono centinaia le persone, in maggioranza monaci, recluse dopo gli arresti che seguirono le proteste di fine agosto. A promuoverle oggi come allora sono i monaci buddisti che reclamano migliori condizioni di vita e maggiore libertà. La protesta di agosto è stata spenta con la repressione della giunta militari, da oltre 20 anni al potere, anche grazie al mancato appoggio della popolazione (evidentemente terrorizzata) alle manifestazioni di piazza. ∞

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Iraq, alla guerra con la guida turistica

La guerra in Iraq “Gli Usa hanno basato i piani per la ricostruzione del Iraq sulle informazioni di una vecchia guida turistica del Medio Oriente pubblicata dalla Lonely Planet”. Ad affermarlo è l’ex ambasciatore Usa Barbara Bodine, che faceva parte della task-force incaricata di pianificare il dopoguerra, nel corso dell’intervista rilasciata alla Bbc per la trasmissione “No plan, no peace”. Sempre dalla Lonely Planet, gli americani appresero dell’economia, della geografia e della cultura irachena. Insomma, un “non-piano” sulla ricostruzione fu elaborato anche grazie alle pillole informative pensate per turisti. I risultati della guerra per la democrazia in Iraq sono sotto gli occhi di tutti: instabilità del paese, 90 mila morti civili nel dopoguerra, migliaia di militari Usa e britannici caduti, e una spesa bellica di 500 miliardi di dollari. Quanti insulti merita questa ex ambasciatrice, incapace di tenere la bocca chiusa? Personalmente la manderei oggi stesso in Iraq ad aggiornare la guida Lonely Planet, così da farle scoprire che forse il paese era messo meglio prima dell’arrivo dei nuovi crociati per la democrazia. ∞

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Kurdistan, venti di guerra

Combattenti del Pkk La scintilla rischia di far scoppiare l’ennesimo conflitto nella regione mediorientale del Kurdistan. Il Pkk ha lanciato con un doppio attacco nella provincia orientale di Hakkari al confine con l’Iraq: in uno scontro ha ucciso 16 soldati turchi, mentre un’autobomba contro un corteo nuziale ha fatto una vittima e 10 feriti. Per tutta risposta Ankara, che da tempo ha ammassato truppe e mezzi al confine con l’Iraq, ha attaccato 60 postazione kurde del Pkk e alcuni villaggi uccidendo una trentina di persone. Contro l’offensiva del Pkk hanno preso posizione i due massimi leader curdi nordiracheni, il presidente iracheno, Jalal Talabani e Massud Barzani. Il primo ha invitato il Pkk a lasciare il Kurdistan iracheno, mentre il secondo si è detto neutrale nello scontro Turchia-Pkk. Anche il governo di Baghdad ha annunciato questa sera “importanti misure” contro la presenza del Pkk in Iraq, mentre l’ambasciatore americano ad Ankara Ross Wilson, ha rilanciato la necessità di “porre fine al terrorismo del Pkk con un’azione comune”. Gli Stati Uniti sono i maggiori alleati dei kurdi del Nor dell’Iraq ai quali ha concesso importanti aree strategiche, ricche di petrolio. Il Pkk, che ha scelto, probabilmente non a caso, il giorno del referendum sull’ elezione diretta del capo dello stato (nel quale il “si” si avvia a vincere con circa il 70% dei voti), ha sfidato la Turchia ad attuare il minacciato intervento militare in Iraq. Mercoledì scorso, il Parlamento di Ankara ha dato  “carta bianca” ai suoi militari con l’obiettivo dichiarato di distruggere i campi del Pkk in Nord Iraq. Il Pkk sta mirando – secondo gli analisti – al doppio obiettivo politico di attirare i turchi nel pantano iracheno, internazionalizzando la sua lotta separatista anti-turca e forzando i curdi nordiracheni a legarsi al Pkk per una resistenza armata comune contro “l’invasore turco”. Un obiettivo che, tuttavia, né i turchi, né i curdi nordiracheni sembrano disposti ad assecondare, soprattutto Ankara che sembra non voler cadere nella trappola di un’incursione in grande scale nel Nord Iraq ed affrontare uno scontro logorante in un territorio ostile. Nell’ultimo anno, il Pkk ha effettuato continui attacchi alle postazioni militari turche, causando l’uccisione di oltre 140 militari. Ancora una volta, quindi, la questione curda  torna di attualità: i curdi sono, con i palestinesi, l’unico popolo mediorientale a non vedersi riconosciuto uno stato sovrano, divisi tra Turchia, Iran e Iraq, e vittime di una repressione decennale. ∞

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Attentato alla Bhutto e i soliti “ignoti”

L’attentato a Benazir Bhutto, Karachi La conta ufficiale conferma che i morti sono oltre 130. La carneficina è stata perpetrata non due ma da un solo kamikaze che prima a lanciato una bomba a mano e poi si è fatto esplodere a pochi passi dal bus blindato su cui viaggiava Benazir Bhutto. la maggioranza delle vittime sono poliziotti (una trentina) e gli iscritti del Ppi (partito pololare pakistano) schierati dall’organizzazione attorno al mezzo dell’ex premier a mo’ di scudo umano per impedire ad eventuali attentatori di salire sul mezzo. Un cordone di sicurezza voluto proprio dai responsabili del partito da sempre diffidenti verso i servizi segreti pakistani ma che ha fatto molto discutere in Pakistan. E proprio contro i servizi segreti punta il dito Benazir Bhutto: “Mi vogliono morta”, accusando anche i seguaci di Zia ul-Haq, l’uomo che decise la morte di suo padre. Altri a non avere dubbi sono i media Europei e americani, secondo cui la strage di Karachi è opera di al Qaeda e dei talebani, citati sempre quando si vuole ascrivere delle responsabilità ma non si conoscono i mandanti. Un po’ come il prezzemolo nelle ricette caserecce.  ∞

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Bhutto e l’orrore censurato in tv

La strage di Karachi, durante il corteo di Banazir Bhutto Benazir Bhutto, leader in esilio da otto anni, non poteva tornare in Pakistan in modo peggiore. Due attenti suicidi hanno ucciso 132 persone e ferite altre 400, tutti sostenitori del Partito popolare pakistano (Ppi) che stavano festeggiando l’arrivo del corteo guidato dall’ex premier: una granata è stata lanciata contro la folla e un kamikaze si è saltare in aria a pochi metri dal veicolo blindato sul quale viaggiava Bhutto, arrivata poche ore prima all’aeroporto internazionale di Karachi. Le immagini degli attentati sono arrivate in pochi minuti sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo. A sorprendere però è la modalità con cui la strage è stata rappresentata: le tv occidentali hanno mostrato il bagliore delle fiamme e la folla in movimento da lontano. Inquadrature quasi sfuocate e solo alcune zoomate sui soccorritori. Diverso l’approccio di al Jazeera, la tv satellitare araba, che non ha esitato a trasmettere persone ferite mortalmente e la devastazione compiuta dalle esplosioni. Si può discutere su scelte editoriali contrapposte, ma naturale sorge l’osservazione che noi occidentali non siamo più abituati a vedere la guerra e la morte in presa diretta. Dalla Guerra del Golfo, dall’embargo video imposto dagli Stati Uniti, le tv occidentali hanno di fatto accettato di presentare la guerra e la violenza in modo quasi asettico: da anni ci informano di guerre in corso, con stragi di civili morti, militari che combattono e distruzione, ma senza averne una rappresentazione diretta. Quasi se la guerra in Afganistan, Iraq, e le stragi compiute da kamikaze fossero una grande partita di Risiko, con eserciti che si muovono, combattono, occupano e conquistano, ma dove non scorre una goccia di sangue. La tv di Al Jazeera, che oggi relega la notizia dell’attentato tra le news minori del sito, mi ha riportato indietro al di 20 anni. ∞

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Putin all’attacco

Putin annuncia il riarmo Eccoli, i fantasmi sono tornati. I fantasmi della guerra fredda. Dopo l’iniziativa della banda Rice, Bush & Co. sullo scudo spaziale allargato all’Est Europa, il “compagno spia” Putin mostra i muscoli e risponde con un rilancio. Rispondendo a “Linea diretta”, botta e risposta con la popolazione russa via internet – a questo proposito ci sarebbe molto da dire sulla genuinità di queste iniziative – il presidente russo ha annunciato che “la Russia ha in programma lo sviluppo di nuove armi atomiche nell’ambito di un piano di incremento dei propri sistemi difensivi. Abbiamo piani grandiosi”. Rispondendo alla sollecitazione di un militare del poligono spaziale di Plisietsk, Putin ha spiegato che «i nostri piani vanno fino 2015 e prevedono lo sviluppo e l’ammodernamento di tutti i tipi di armamenti: mezzi di terra e missilistici, aviazione e flotta, inclusi i sommergibili atomici». Per gratificare l’apparato militare e il patrio orgoglio si è impegnato a realizzare entro questa data «un nuovo caccia di quinta generazione, mentre già ora il nuovo Sukhoi 34 (Su34) ha cominciato a essere consegnato alle forze armate. Puntiamo sulla produzione di nuovi complessi missilistici ad alta precisione, su armi del tutto nuove, sempre ad alta precisione, sulla modernizzazione dei mezzi di ricognizione, di telecomunicazioni ed elettronici. Per la flotta, quest’anno dovrebbero venire completati la portaerei Iuri Dolgoruki e due sommergibili atomici strategici, il “Vladimir Momomakh” e l’ “Aleksandr Nevski”». Applausi. Speriamo che a Bush non vengano in mente nuove idee per una campagna presidenziale già in corso. ∞

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Myanmar, continua la repressione e l’Onu è ferma

Finite le proteste, in Maynmar è tempo di repressione “Do you remember Myanmar?”. La domanda andrebbe rivolta ai media italiani che, dopo qualche giorno di copertura hanno rimesso nell’ombra il caso di Myanmar. Nell’ex Birmania, attraversata tra agosto e settembre dalla pacifica protesta dei monaci, si è scatenata la repressione del regime militare, al governo dal 1962: omicidi, deportazioni, fosse comuni e campi di concentramento.
Contadini costretti a marciare. La giunta militare ha bisogno di recuperare credibilità e ha pensato bene di indire una manifestazione di sostegno, facendo sfilare migliaia di persone prelevate forzatamente dai villaggi interni. Il risultato è una manifestazione gioiosa come la coda al rancio dei detenuti dei campi di internamento, attrezzati dai militari nel nord del paese e dove sono rinchiusi i protagonisti delle proteste dei mesi scorsi.
Deportati e uccisi i leader della rivolta. E’ di questi giorni la notizia che tre leader del gruppo “88-Generation” – Htay Gyae, Ming Aung Thing e Mie Mie- coinvolti con la protesta dei monaci buddisti, sono stati arrestati e incarcerati in località diverse del paese. E’ andata peggio a Win Shwe, leader della Lega Nazionale per la Democrazia, principale partito di opposizione, morto il 9 ottobre per le conseguenze delle torture inflittegli nel carcere di Sagaing. Win Shwe era il collegamento tra i dissidenti all’estero e la rete dell’opposizione in patria ed era sotto arresto fin dal 26 settembre quando iniziò la brutale repressione dei generali.
Ipocrisia Onu. Negli scorsi giorni, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non è riuscito a trovare l’accordo per una risoluzione di condanna e, men che meno, di sanzioni contro i business che arricchiscono la corrotta giunta militare, ovvero pietre preziose (zaffiri e rubini), legno e capi di cotone. Il “merito” di aver salvato i criminali birmani va a Cina e Russia. Liu Zhenmin, rappresentante permanente cinese all’Onu, si è limitato a riferire ai giornalisti che “Pechino appoggia il governo del popolo del Myanmar e l’imminente missione di Ibrahim Gambari”. Il topolino partorito dal Palazzo di Vetro è un atto giuridico pari a una “Dichiarazione presidenziale non vincolante”, ma adottata all’unanimità dai quindici componenti del Consiglio (i cinque permanenti Cina Russia Usa Regno Unito e Francia, più i 10 a rotazione), in cui si “deplora fortemente l’uso della violenza contro i dimostranti pacifici in Myanmar”, e ribadisce l’importanza di “una rapida scarcerazione di tutti i prigionieri politici e dei detenuti ancora in prigione”.
La repressione. Le vittime sono i monaci buddisti che hanno protestato gandhianamente per 16 giorni nelle strade di 25 città del Paese. I militari hanno ucciso almeno 200 persone (e cremato i cadaveri per non lasciarne traccia) e ne hanno incarcerato più di 7mila (alcuni già rilasciati) di cui almeno 2mila avviati ai lavori forzati nella jungla di montagna al confine con l’India, nel lager di Kabaw.
Il precedente. E’ la prima volta dal 1962, anno di avvento del regime dittatoriale, che le Nazioni Unite ‘deplorano’ il comportamento della Giunta socialista che nel 1988 represse con 3mila morti le pacifiche proteste degli studenti e da 12 anni tiene sotto arresto la principale artefice delle proteste gandhiane, il Nobel 1991 per la Pace Aung San Suu Kii. ∞

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